Racconti sparsi

 

La Brigata

Nati nel ’40, anno di sogni di gloria. Cresciuti a pane, latte e castagne. Amici dalle scuole medie. Paolo, Sandro, Luca. Ragazzi semplici, ordinari come soldati di leva, vergini alle novità. Matricole all’Università di Firenze. La brigata delle Cascine, il nome affibbiatogli dai fiorentini. Da quelli con la puzza sotto il naso, dai migliori, i più bravi, quelli che nell’umiliare gioivano.
Poi lei entrò nelle loro vite. Una scintilla a illuminare il buio della normalità in cui brancolavano smarriti. I giorni bigi e anonimi si colorarono dei capelli di Lara, si animarono della sua allegria, si riempirono di musica. Pomeriggi rubati allo studio ascoltando 45 giri, accovacciati sul tappeto in salotto, occhi al soffitto e la libertà di sognare. Ain’t That a Shame e Johnny B. Goode i dischi preferiti. Avevano incontrato Lara e il Rock&Roll. Dal secondo non vennero abbandonati.
La Ford è ferma sulla strada sterrata. Vapore dal cofano sollevato. Campi di fieno intorno. Il sole lento si muove verso Ovest. Lara è seduta su una pietra, fuma. La stessa chioma ramata dei vent’anni. I tre uomini, mani in tasca, osservano sconsolati il motore. Non ne capiscono un granché, fanno mestieri da mani pulite.
“Lara. Avresti dovuto controllare l’auto prima di partire.” Luca parla piano per mascherare il disappunto. Per tutta risposta lei sbuffa e si sposta una ciocca ribelle dal viso, inclina il capo verso l’alto e aspira una boccata di fumo.
“Come abbiamo potuto lasciarle decidere la strada? Proseguendo sulla statale a quest’ora saremmo a Roma. In tempo per cenare e andare al concerto*.” Sandro reprime a stento l’irritazione. Paolo tira un calcio a un sasso. “L’ultima occasione per vederli tutti quanti dal vivo.”
“Quante storie! Ho comprato io i biglietti, e sono io che ci rimetto. Sedete e godetevi questo tramonto. È stupendo.”
Le si avvicinano scrutandosi l’un l’altro. Quanto hanno amato quella donna, innamorati e mai ricambiati.
“Accendiamo un bel falò in mezzo alla strada, musica finché la batteria non si scarica e balliamo.”
La fissano perplessi. “Vuoi passare la notte qui in mezzo al nulla? Siamo a metà novembre, geleremo.” Ignora il commento di Paolo. “Luca accendi la radio per favore.” Lui obbedisce, tuttora incapace a dirle di no.
Alzandosi li contempla malinconica. Come può svelargli di avere manomesso il radiatore, di non possedere i tagliandi di ingresso per il concerto? Come può dire loro delle spietate parole dei medici?
Sotto il cielo porpora del crepuscolo, le note di Jambalaya riecheggiano nella campagna. Lara danza, e i tre amici, ignari unici amori della sua vita, si uniscono a lei. La brigata delle Cascine riappare per un’ultima volta.

*Concerto “The Giants Of Rock ‘N’ Roll” – Roma 17 Novembre 1989- Little Richard, Fats Domino, BB King, Jerry Lee Lewis, Bo Didley, Ray Charles, James Brown

 

La Torta di mirtilli

Se metto a fuoco il bosco di aceri più a sud, il ferro sbiadisce, indistinto, poi scompare.
Mi chiamo Jack London. Già, come lo scrittore. Vivevo a Maville in Ohio, ho trascorso lì gran parte della mia esistenza. Possedevo una casa, un cane, a cui ho avuto il buon senso di affibbiargli il nome di Prince, e una moglie, Vera. Abbiamo condiviso quasi trent’anni insieme, c’erano giorni buoni e, come è giusto che sia, giorni meno buoni. Questi ultimi li ricordo poco.
Mia moglie diceva che al mondo ci sono solo due modi per fare una torta ai mirtilli come si deve, il suo e quello degli altri. Non ho mai avuto cuore di dirglielo, ma la sua era immangiabile. Aggiungeva zenzero e peperoncino, in pratica il sapore di mirtillo spariva sepolto dai forti aromi delle due spezie.
Quella volta che sua cugina Cea di Fresno venne a trovarci, Vera si cimentò nella sua originale preparazione. Le gironzolavo intorno, consigliandole di andarci piano con gli ingredienti, che forse i suoi parenti avrebbero preferito qualcosa di più tradizionale, magari una cheescake. Mi fulminò con lo sguardo. «Jack London!» Mi apostrofò. «Vai a farti un giro da Mobs, e non tornare prima delle cinque». E così feci, indossai il mio giaccone, il cappello e misi il guinzaglio al vecchio Prince.
Quando rincasai, Cea era già arrivata con suo marito. Cenammo, e fu una serata piacevole. Poi Vera si alzò, e con un’enfasi che non le riconoscevo, disse: «E ora la torta!»
Tornò con un vassoio, lo posò al centro del tavolo, e, con precisione chirurgica, tagliò sei fette. Le mise nei piattini da dolce e le servì. Io mangiai la mia porzione al solito modo: pezzi piuttosto grandi, masticazione quasi assente e ad ogni boccone un sorso cospicuo di birra. Potrei mangiare bocconcini di carne per il cane con quel sistema. Gli ospiti invece apprezzarono. Ne fui sollevato e felice.
Quando si ammalò, non me ne accorsi. Per me era sempre la solita Vera. Sì, ogni tanto si dimenticava dove metteva le cose, ma a quanti succede? Poi peggiorò. Come una giornata di luglio, soleggiata, qualche nuvola, un po’ di pioggia, prima lieve poi sempre più forte, gli scrosci e infine la grandine.
Trovai la lettera nell’armadietto del bagno, dietro la schiuma da barba. La data indicava due settimane prima. Iniziava con “Se mi ami”.
La notte del 2 marzo 2004 uccisi mia moglie con cento gocce di Gradol.
Il bosco di aceri è ancora lì. Ora di definito c’è il ferro rugginoso delle sbarre. Mi volto verso la porta di metallo. La foto di Vera mi osserva. Ancora le sue parole, “Non voltare le spalle alla vita”. Ci sto provando, ma è così difficile, amore mio.

 

Il Dadaismo nasce a Cuvio

Di quel tardo pomeriggio di primavera del ’76 ricordo ogni cosa. A quel tempo ero rappresentante di un’azienda produttrice di pasta. Per intenderci il pezzo forte del catalogo erano i tagliolini di grano duro. Mi fermai in quel caffè di Cuvio. Parcheggiai la 132 marrone davanti all’ingresso, l’insegna diceva Bar China. Ordinai un amaro. Il barista passò lo strofinaccio sul bancone prima di servirmelo. Mi si avvicinò un attempato signore, portava i baffi alla Dalì.  Ne sfoggiavo fiero un bel paio anch’io, neri e folti. Oggi non si usano più. Oggi sono tutti glabri.
Si presentò, il suo nome era Dante Giusti.
«Sa giocare a scopa?»
«Me la cavo.»
Mi guidò a un tavolo dove due anziani individui guardavano rapiti una ragazza in minigonna duellare con il flipper. Giusti mi porse una seggiola e si sistemò di fronte. Il vecchio alla mia destra fece il mazzo. Aveva una voglia a forma di Veneto sul cranio pelato, la provincia di Rovigo gli lambiva l’orecchio destro.
«Ogni anno dal 1932, questo stesso giorno, ci riuniamo per una partita», disse distribuendo le carte.
«In ricordo di Remo Carghini», precisò Dante
«Lo chiamavamo Cargo. Faceva il pugile, e il pittore», aggiunse il terzo, sguardo da camaleonte, un occhio su di me e l’altro fisso sulle gambe della giovane.
«Capisco.» Dissi, ma non capivo nulla.
«Sposò una contessa. Viaggio di nozze a Cuba.»
«Erano degli spendaccioni. Finirono quasi tutti i soldi. Avanzarono solo quanto bastava per un biglietto del piroscafo per Caracas.»
«Lo comprò la moglie. Lui promise di organizzare un incontro di boxe per racimolare il denaro necessario. Una volta vinto, l’avrebbe raggiunta.»
Io ero impaziente di giocare, avevo una buona mano.
«Perse. Cadde alla quinta ripresa. KO»
«Il mattino dopo rubò una barca»
«Non è mai arrivato a Caracas»
Il mio socio apre con un re.
«Fu, insieme a noi, il fondatore del Dadaismo»
«Nel 1915 eravamo giovani e arrabbiati. Odiavamo tutto. I governi, la letteratura, l’arte in sé.»
«Volevamo fare tabula rasa nelle coscienze.»
«Capisco.» E ancora non capivo alcunché.
«Ci riunivamo e pianificavamo un nuovo modo di pensare, di immaginare, di creare.»
«Poi arrivò lo zingaro. Canaglia bolscevica»
«Un infame. Si dice divenne una spia di Stalin. Tradì degli amici, morti fucilati.»
Gioco un sei.
«Cargo lo avrebbe preso a pugni. Ci rubò il “Vocabolo”. E fuggì in Svizzera.»
«Raccontò che il termine Dada lo trovò aprendo a caso un dizionario.»
«Menzogna.»
«Capisco.» Altra bugia.
«Invece il merito era di Cargo.»
«Discreto pugile, bell’uomo, ma balbuziente.»
«Quando alzava un po’ il gomito»
Prendo il sette.
«Da ubriaco era Dante il suo bersaglio preferito.»
«Agitava i pugni. Scagliava saliva e parole. E urlava Da-Da-Danteeee.»
«Ed ecco il nome: Dada.»
«Scopa!» Gridai.
I tre mi osservarono come se mi fossi seduto con loro in quel momento. Poi scoppiarono a ridere.

 

La Somme

Il sole ha da poco abbandonato il mondo, regalandomi freddo, pioggia e buio. Ogni goccia che colpisce il mio volto lava un po’ del fango che lo ricopre. Sono qui da due giorni, in questa buca limacciosa, riparo e prigione allo stesso tempo. Ogni tanto un lampo. Immagino occhi attenti scrutare questo paesaggio lunare, nel tentativo di cogliere il minimo movimento, trovare una variazione nella fissità del terreno piagato dai reticolati e dai corpi silenti dei miei compagni.
Ci svegliarono all’alba. Ci misero in fila nelle trincee, fucile e zaino sulle spalle, elmetto di acciaio in testa. Passarono gli ufficiali. Per la patria, dissero. Per il Re, aggiunsero. Poi tornarono nelle retrovie.
Il sergente Platt, baffi neri e occhi tremolanti, fischietto in bocca, fissava il comandante in attesa dell’ordine di attacco. La fioca luce del mattino indugiava sui nostri giovani volti. Visi conosciuti, tutta gente di Bradford, la città dove sono nato.
Paul, che perse il padre sei anni fa, e alla cui madre il signor Cox donava cibo di nascosto dalla moglie. Carne, quando a fine mese ritirava il salario, pane duro, sottratto alle galline che la signora Cox allevava nel piccolo giardino dietro casa, quando i soldi finivano. Comunque portava sempre qualcosa e senza pretendere nulla in cambio, ma forse, il signor Cox, qualcosa la otteneva.
Paul tormentava la cinghia del fucile, l’arrotolava e srotolava sul dorso della mano. Il mio caporeparto alla tintoria Salt, il mite e scrupoloso signor Peck, si stava mordendo il labbro fino a farlo sanguinare. Jan, cresciuto come me nelle strade sporche di Broomfields, tremava così forte da faticare a tenere l’elmetto in testa. E il piccolo Tim, appena diciottenne, baciava il crocifisso donatogli da sua madre prima di partire. Tutti con la paura nell’animo, tutti a cercare di nasconderla.
Il fischio, che mai avremmo desiderato sentire, inondò le trincee. Urlando, le scavalcammo. Di corsa attraverso quei campi fangosi e brulli. Il primo che venne colpito non lo riconobbi, ma il piccolo Tim era a pochi metri da me. Falciato da una raffica cadde come una marionetta. Ad uno ad uno, tutti i miei amici, vecchi e nuovi, morirono.
Sono ancora lì, tra le pietre e le pozzanghere rossastre.  Anche Paul è qui, un po’ più in là della mia buca. Ucciso da una granata. Forse la stessa da cui è partita la scheggia che mi ha bucato l’intestino.
Ed ora, sotto lo sguardo di un cielo scuro e indifferente, circondato da centinaia di volti muti, di occhi ciechi, fradicio e impaurito, un unico pensiero mi pervade: vivere, vivere, vivere…

 

Il Re Marziano

Io sono il Nero. Le dita sporche di terra stringono la testa del cavallo. Osservo il Bianco. Occhi scuri come la madre, poco più alto di uno stocco di granturco ai primi di giugno. Sandy, dodici anni, mia nipote. Giochiamo a un tavolo del pub di Bud, sulla End Street. Il televisore è sintonizzato su un nuovo canale che trasmette notizie 24 ore su 24. Notizie dall’Iraq. Stiamo vincendo.
Se avanzo in C7, in due mosse sarà scacco matto. Lascio la presa, sposto un pedone in A4, che la partita duri più a lungo.
Sulla strada passa un carro funebre, altre auto lo seguono, tutte nere, tutte di grossa cilindrata. So di chi si tratta: John Mann. Un’onesta carriera di compositore a Hollywood e il desiderio di essere inumato accanto al fratello, morto di cancro alla stessa età di Sandy, nel ’49. Si chiamava Robert, una testa troppo grande per quel corpo magro, ti fissava sempre sorridente con i suoi occhi da albino e suonava il banjo. E per noi, che eravamo giovani in quegli anni, era conosciuto come il Re Marziano. Quel soprannome gli piaceva, e se era stato coniato per offendere, perse in breve tempo tale accezione negativa.
Regina in D6. Mi mette in difficoltà la piccola.
Ricordo quando i fratelli entrarono nell’emporio di Jack Prest, entrambi con un strumento a tracolla. Robert impilò sul bancone una dozzina di monete da un centesimo, ordinò una gazzosa, o “gaazzosaa” come la pronunciava lui, in quel modo tutto suo di prolungare la a.
Jack gli restituì il denaro. “Oggi offro io”, disse. La reazione del ragazzo fu incredibile. Si scostò dal bancone spingendosi con le braccia, compì una mezza giravolta e al contempo imbracciò il banjo. Gli occhi grigi si illuminarono, ammiccò al fratello, che, sapendo cosa stava per accadere, era già pronto con la chitarra.
L’ambiente si riempì di musica. Accordi su accordi, note su note. Robert toccava e pizzicava le corde a una velocità impressionante con la stessa competenza di un professionista. John stentava a stargli dietro con la sua Fender. Il Re Marziano, che a fatica avrebbe scritto il suo nome su un foglio di carta, si rivelò un musicista fenomenale.
Torre in D2. Difesa a oltranza.
Il povero Robert non entrò più nel locale di Prest, né camminò per le strade polverose di Given.  I medici non gli allungarono la vita, come era solito fare lui con le a.
“Scacco Matto!” Sandy mi coglie di sorpresa. Quel viso pieno di lentiggini mi guarda compiaciuto. Eh già. Il mio pezzo più importante non ha vie di uscita.
Sconfitto perché distratto da un altro Re.

 

Il Soldato Qualsiasi

Un centinaio di uomini, nei loro pantaloni di panno bigio e i moschetti sulle spalle, seguono l’argine fangoso della risaia in questo aprile inoltrato. Piemontesi dell’Armata Sarda diretti al ponte sul Gravellone.
Elsa, curva come le sue compagne nell’acqua stagnante, la gonna rincoccata fino all’inguine, le calze di cotone a proteggere i polpacci dagli insetti, solleva il capo al loro passaggio. In un barattolo di vetro allacciato alla vita ripone le sanguisughe che riesce a catturare per poi venderle a Gino, il figlio del farmacista di Cava, due centesimi di lira a verme. Lui, a Pavia, ne ricava almeno otto.
Uno dei soldati la guarda, le sorride, il braccio alto per salutarla. Elsa, sorpresa, ricambia saluto e sorriso. A spintoni i suoi commilitoni lo fanno avanzare. Lui continua a fissarla, forse la chiama. Elsa si china sistemando il cappello a larghe tese per nascondere a lui e al mondo il rossore che le sale in viso.
Quando il sole si fa un po’ più alto, e si avvicina la pausa per mangiare un tozzo di pane e una patata lessata la sera prima, con le mani grinze e la schiena che le urla contro, Elsa rialza la testa.
Il manipolo di soldati, dopo alcune ore di cammino, ai margini di un bosco di robinie e querce, si imbatte in una compagnia nemica.
Ed è tutto un gridarsi addosso, il metallo vola, schegge e brandelli di farnia nell’aria, bestemmie, zolfo a incendiare narici, crogiolo di panico e coraggio, il tremore tradisce la mira, il sudore inganna gli occhi. Colpi precisi dei fucili austriaci, indecisi quelli piemontesi, comunque adeguati entrambi a interrompere il battito di cuore in un soldato qualsiasi.
Il tempo di un Credo ben recitato e la battaglia finisce. Come acque risucchiate di marea, i due schieramenti si ritirano.
Il soldato, più che vederlo, intuisce il cielo oltre le foglie e i rami, azzurro come gli occhi della ragazza nella risaia. Un’immagine nitida, tenace, che non lo abbandona. Finita la campagna e scacciati gli invasori oltre le Alpi, tornerà in quei luoghi per cercarla.
Elsa rientra al paese con le altre mondine, la giornata è stata lunga e faticosa. Anche quel giorno tra i soldati che hanno attraversato i campi non c’era Carletto, suo fratello. Forse l’indomani sarà il giorno buono. Poi si stupisce a pensare a quel giovane in divisa che le ha sorriso il mattino. Si chiede dove sarà in quel momento.
Lui è ancora lì. Il cielo si fa amaranto e non gli rievoca più gli occhi della giovane. Il vento si alza, gli armenti vengono condotti nei recinti, uno stormo di fringuelli si sposta verso Nord. Lui è ancora lì, solo, fino a quando non lo raggiungono i corvi.

 

Regalo di Natale

Nevica nell’oscurità. Mario è in piedi sopra il tetto di un garage, indossa un berretto di lana e una maschera da sub.
Ha trentuno anni, la barba incolta, gli occhi verdi del padre. Venuto alla luce otto giorni oltre il termine, non l’unico ritardo per Mario. Sua madre diceva: forse gli manca un gradino per salire al primo piano, non importa, quello che conta è che sia felice. Zio Gino, dal canto suo, asseriva che ragionare su rampe di scale fosse più realistico.
Era solito dirgli, “Sei un bravo bambino Mario, ma non prendere mai l’iniziativa”. Lui annuiva ignaro del significato. Prendeva sculacciate da sua madre, castagne nel bosco dietro via Lozza in autunno, e a volte, anche se gli era proibito farlo, prendeva la strada che porta in centro. Ma l’iniziativa?
Quando arrivò la fine del mondo, Mario dormiva. Non si accorse delle grida, delle sirene ululanti, senza l’apparecchio acustico era come fosse in fondo al mare.
Si svegliò e dopo essersi infilato nelle orecchie gli aggeggi che lo riportavano nell’universo conosciuto, fece quello che fanno tutti, anche i più intelligenti: andò in bagno. Dalla tapparella filtravano i primi raggi di sole. Sentì uno scoppio. Pensò a petardi. Si accostò alla finestra. Vide il signor Meo nel piazzale che cercava di salire in auto. Intorno a lui una decina di persone. Strane persone. Una era nuda dalla cintola in giù. Gli si avvicinavano lentamente. Il signor Meo impugnava una pistola, e sparava. Li colpiva e quelli continuavano ad avanzare poi uno gli afferrò il braccio portandoselo alla bocca. Il signor Meo urlò.
Si precipitò in camera della madre e si fermò sulla porta. Zio Gino era stato molto chiaro in merito, “Puoi andare dove vuoi in questa casa, ma se ti trovi davanti a una porta chiusa, bussa”.
Bussò. Attese non meno di dieci minuti immobile poi, non avendo risposta, aprì. Era vuota. Tornò alla finestra del bagno, nel piazzale c’era gente che mangiava altra gente.
Sono passati tre mesi da allora. Adesso nel suo rifugio a cielo aperto Mario sa di aver commesso un errore, l’idea di scendere in centro fino al negozio di giocattoli di via Corti gli sembrava buona, facile da raggiungere, si percorreva viale Cinto, e dopo la sopraelevata si proseguiva per via Verdi. Ora però sono tre chilometri pieni di insidie.
Eppure era quasi giunto alla meta, una trentina di passi dal suo regalo di Natale. Lo individuarono. Corse veloce, era bravo in questo, e gli inseguitori persero terreno. Ma da ogni angolo ne spuntava un altro. La piccola costruzione fu la sua salvezza.
Si gela. La neve ghiaccia il vetro della maschera. Mario ha paura, tra quelle cose che lo circondano ce n’è una nuda dalla cintola in giù.